Qui l’articolo originale, e qui dove l’ho trovato citato.
“C’è chi compra Babbo Natale gonfiabili da appendere al balcone e, quando gli chiedi se ne ha davvero bisogno, ti risponde ridacchiando che “no, no, ovviamente no”. Ma quando fai la stessa domanda sulla TV a schermo piatto, niente più risatine: il disagio è palpabile.
La verità è che i nostri bisogni reali sono estremamente limitati.
Molta parte del dibattito su come superare la crisi economica si concentra su un’unica parola: regolamentazione. Non è difficile capire perché. È il comportamento di una serie di aziende che ci ha proiettato in questo caos: sembrerebbe quindi piuttosto ovvio che, per evitare futuri, ulteriori collassi del sistema economico, l’unico modo sia creare, e applicare con rigore, nuove regole che mettano fuori legge quel comportamento. Ma la verità è decisamente più complicata. L’economia mondiale è costituita ogni giorno da miliardi di transazioni. Non ci saranno mai abbastanza ispettori, revisori, funzionari doganali e poliziotti per assicurare che tutte, o anche solo la maggior parte di queste transazioni avvenga nel rispetto delle regole. Non solo: i responsabili dell’applicazione di queste regole non saranno necessariamente incorruttibili e, di conseguenza, sarà necessario controllarli e garantirne la responsabilità in caso di scorrettezze; e via così. Come si vede, le norme di per se stesse non possono risolvere il problema. Serve invece qualcosa di decisamente più rivoluzionario: che le persone facciano proprio un diverso senso della correttezza, e si comportino di conseguenza perché convinte che sia giusto.
I valori normativi di una cultura contano. Le norme diventano necessarie quando questa cultura fallisce nel suo intento, ma da sole non possono fungere da bastione unico a difesa della buona condotta delle persone. Ma quale trasformazione della cultura normativa è necessaria in questo caso?
A dover essere rimosso completamente, o almeno notevolmente ridimensionato, è il consumismo: l’ossessione per l’acquisire che è diventata il principio fondante della vita americana. Consumismo e capitalismo non sono la stessa cosa, così come non lo sono consumismo e consumo. Per spiegare la differenza, è utile partire dalla gerarchia dei bisogni di Abraham Maslow. Sul gradino più basso ci sono le esigenze umane fondamentali; una volta soddisfatte queste ultime, un ulteriore livello di soddisfazione deriva da affetti, auto-stima e, infine, realizzazione personale. Finché si concentra sulla soddisfazione dei bisogni essenziali (sicurezza, riparo, cibo, vestiario, cure mediche, educazione), il consumo non è consumismo. È quando si tentano di soddisfare gli altri bisogni, quelli più in alto nella scala, attraverso la mera acquisizione di beni e servizi, che il consumo diventa consumismo, e il consumismo si trasforma in una piaga sociale.
Il collegamento con la crisi economica è evidente. Una cultura in cui l’impulso irrefrenabile a consumare domina la psicologia del cittadino è quella in cui le persone faranno di tutto, o quasi, per acquisire i mezzi necessari a consumare: accettare orari lavorativi da schiavi, condurre la propria attività all’insegna dell’avidità, tenere comportamenti al limite della legalità allo scopo di massimizzare i guadagni. Ma non solo: quelle persone compreranno case che vanno oltre le loro possibilità e faranno debiti con le carte di credito senza pensarci due volte. Sembra allora sensato concludere che il consumismo è responsabile del caos economico attuale né più né meno di altri fattori.
Ma il consumismo non smetterà di avere un posto centrale nella nostra cultura come per magia: dovrà essere soppiantato da qualcos’altro.
Il rifiuto del consumismo e il passaggio a un diverso approccio rappresenterebbe, naturalmente, un cambiamento epocale per la società americana. Ma questo tipo di trasformazioni non sono una novità assoluta: cambiamenti profondi nella definizione di “bella vita” si sono verificati nel corso dell’intera storia umana. Prima che lo spirito capitalista si diffondesse in (quasi) tutto il mondo, né il lavoro né il commercio erano considerati occupazioni particolarmente elevate, anzi: spesso venivano delegati a minoranze disprezzate, come gli ebrei. Per secoli l’aristocrazia europea e giapponese ha considerato la guerra come professione degna di ammirazione. In Cina, filosofia, poesia e pittura erano le attività degne di rispetto, nell’epoca d’oro degli eruditi. La religione era spesso la fonte prevalente della cultura normativa; successivamente, con l’Illuminismo, l’umanesimo secolare è stato considerato, in alcune parti del mondo, come base della società. Questo tipo di trasformazione normativa è possibile, specialmente in un momento di crisi.
Per realizzarla, non dobbiamo rinunciare al capitalismo: non è necessario abbracciare un’esistenza di rinunce, fatta di tela di sacco e cenere, né rinunciare al concetto di altruismo, e non si tratta di esortare i poveri (persone o nazioni che siano) a considerarsi soddisfatti del proprio destino e ad abbracciare la propria miseria; chiaramente, l’economia capitalista deve essere sufficientemente solida da soddisfare i bisogni primari di tutti. Si tratta, però, di indirizzarsi verso un nuovo equilibrio tra consumi e altri traguardi.
Esistono prove convincenti del fatto che il tentativo di impiegare i consumi per soddisfare bisogni più elevati (non primari) sia in definitiva una fatica di Sisifo. Numerosi studi hanno dimostrato che, in varie nazioni con redditi annuali pro capite superiori ai $20.000, non esiste correlazione tra aumento del reddito e della felicità. Negli Stati Uniti, il reddito pro capite è triplicato dal II conflitto mondiale , ma i livelli di soddisfazione esistenziale sono rimasti praticamente invariati; la popolazione giapponese, il cui reddito è aumentato di circa sei volte dal 1958, ha visto un’ampia stagnazione dei livelli di soddisfazione. Secondo gli studi, inoltre, molti membri delle società capitalistiche avvertono sentimenti di insoddisfazione, se non proprio di privazione, indipendentemente dall’entità dei loro guadagni e consumi, perché altri possono guadagnare e spendere ancora di più: a contare è la privazione relativa, più che assoluta. Questo rappresenta un problema dato che, per definizione, la maggioranza delle persone non può consumare più della maggioranza delle altre.
Il consumismo, va detto, non affligge solo le classi elevate delle società più ricche, ma anche le classi medie e molti membri di quelle operaie. Un numero elevato di persone (traversale alla società) è convinto di lavorare solo per arrivare a fine mese, ma dall’esame delle loro liste della spesa e dei loro guardaroba si desume chiaramente che queste persone spendono buona parte del reddito disponibile in status symbol, ad esempio abiti firmati, la macchina “giusta” e altri beni assortiti non veramente necessari. È possibile che questa mentalità sia una parte talmente integrante della cultura americana da condannare in partenza ogni tentativo di resisterle. Ma l’attuale recessione potrebbe rappresentare una via d’uscita, in questo senso.
Fino a oggi, buona parte di questo ridimensionamento è stato involontario, il risultato di una necessità economica. Il passo successivo è far comprendere che limitare i consumi non equivale ad ammettere un fallimento di fronte alla società. Piuttosto, rappresenta la liberazione da un’ossessione, l’opportunità di abbandonare il consumismo per concentrarsi… su cosa? Cosa dovrebbe andare a sostituire l’adorazione per i beni di consumo?
La risposta è una cultura che esalti le fonti della realizzazione umana che vanno al di là dell’acquisizione di beni. I due candidati più ovvi per questo ruolo sono le attività di tipo comunitario e trascendente.
Per “comunitarismo” si intende l’investimento di tempo ed energie nei rapporti con l’altro, inclusi famigliari, amici e membri della propria comunità. Il termine include inoltre l’agire per il bene comune: volontariato, attività pubblica e politica. La vita comunitaria non è focalizzata sull’altruismo, ma sulla reciprocità, nel senso che un coinvolgimento più ampio e profondo con l’altro va a vantaggio di chi dà come di chi riceve. In particolare, secondo numerosi studi, le attività comunitarie alimentano una profonda soddisfazione personale. Uno studio condotto su cinquantenni maschi mostra che i soggetti con una cerchia di amicizie hanno molte meno probabilità di sviluppare problemi cardiaci. Un altro mostra che la soddisfazione esistenziale è più elevata negli adulti meno giovani che svolgono servizi di tipo comunitario.
Per attività di tipo trascendente si intendono quelle spirituali in senso ampio, ad esempio religiose, contemplative e artistiche. Lo stile di vita degli eruditi cinesi, focalizzato su poesia, filosofia e pittura, rappresenta un ottimo esempio (anche se limitato, trattandosi di uno stile di vita riservato a un’elite). Nella società moderna, questo tipo di attività sono spesso state enfatizzate da bohemien, artisti alle prime armi e altri soggetti coinvolti in un percorso esistenziale di crescita continua e di consumi modesti. Tuttavia, anche queste categorie rappresentano una minima parte della società. Chiaramente, perché una cultura abbandoni il consumismo e si rivolga ad attività di tipo trascendente per soddisfare i propri bisogni non primari, l’opportunità di prendere parte a questo tipo di attività deve essere disponibile su una scala più ampia.
Tutto questo può sembrare molto astratto, per non dire utopistico. Ma è possibile individuare un precedente laddove la società attribuisce importanza alle attività comunitarie e trascendenti per i suoi membri non più attivi lavorativamente, che trascorrono quindi i decenni finali della propria esistenza dipingendo, non per vendere o esporre le proprie opere, ma come forma di espressione di sé, socializzando, facendo volontariato e, in alcuni casi, frequentando corsi di formazione. Per godersi una camminata non è necessario indossare scarpe firmate. Una partita a scacchi rimane la stessa, che venga giocata con pezzi di plastica oppure di marmo o di legno pregiato. E sono piuttosto sicuro che il Signore non dia più ascolto a chi possiede una Bibbia rilegata in pelle piuttosto che una in edizione economica, magari stampata su carta riciclata. In sintesi, chi adotta questo stile di vita scoprirà di poter raggiungere un livello di soddisfazione più elevato anche rinunciando a una porzione notevole della ricchezza in eccesso di cui dispone.
Il metodo principale attraverso il quale la società determinerà se la crisi attuale potrà fungere da causa scatenante di una trasformazione culturale, oppure costituirà una semplice battuta d’arresto del “progetto consumismo”, consiste in un processo che io chiamo “mega dialogo morale”. La società è costantemente coinvolta in dialoghi di massa per definire cos’è giusto e cos’è sbagliato. Normalmente, in ogni momento specifico solo uno o due argomenti sono prevalenti in questi “mega-dialoghi”. Nei decenni passati, si è discusso dei diritti delle donne e delle minoranze. I mega-dialoghi coinvolgono milioni di membri di una società, che si confrontano sul luogo di lavoro, in famiglia, sui media e durante i vari eventi pubblici. Spesso si tratta di scambi accesi e molto sentiti che, pur non avendo un inizio o una fine precisa, tendono a determinare un cambiamento nella cultura di una società e nel comportamento dei suoi membri.
Condurre una discussione a livello globale su un argomento così teorico, tuttavia, è solo l’inizio. Se è destino che si sviluppi una nuova comprensione condivisa in relazione ai consumi, l’educazione avrà un ruolo determinante. Le scuole, che spesso rivendicano un’attenzione limitata solo alle materie dei programmi, sono in realtà canali privilegiati che alimentano la trasformazione dei valori sociali. Ad esempio, molte scuole lasciano un’impressione duratura sui bambini in termini di necessità di rispettare l’ambiente, di non adottare comportamenti discriminatori in base a razza o etnia, e di risolvere i contrasti in modo pacifico. Non c’è motivo per cui queste stesse scuole non possano respingere l’avanzata del consumismo, promuovendo i valori connessi alla dimensione comunitaria e trascendente. Le uniformi scolastiche (volte a contrastare uno dei segni più evidenti del consumismo) e un’enfasi posta sulle attività a favore della comunità sono solo due modi per integrare questi concetti nella cultura dell’educazione pubblica.
Sicuramente non mi aspetto che le persone abbandonino in massa l’atteggiamento mentale consumistico da un giorno all’altro. Alcuni rimarranno legati al vecchio sistema mentre provano a saggiare le acque del nuovo, proprio come quelli che mettono la giacca sopra i jeans. Altri, però, ridurranno i consumi più appariscenti senza sensi di colpa né timore del giudizio negativo altrui. Le società cambiano direzione per gradi. Tutto quel che serve è che sempre più persone trasformino l’attuale crisi economica in una liberazione dall’ossessione per i beni di consumo, e il superlavoro necessario ad alimentarla; e, passo dopo passo, inizino a ripensare la propria definizione di “bella vita”.
Amitai Etzioni è docente di relazioni internazionali e direttore dell’Institute for Communitarian Policy Studies della George Washington University, nonché autore di The Active Society e di numerosi contributi per CNN.com.
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Qualche osservazione mia (elle): secondo me, i punti particolarmente interessanti qui sono due. Il primo è il concetto di “mega-dialogo”, l’idea che gli argomenti di cui si parla a cena con gli amici o durante la pausa caffè siano indicativi dei potenziali cambiamenti che bollono in pentola nella nostra cultura e nella nostra società. Non ci avevo mai pensato, ma mi pare che sia vero che argomenti come i soldi, il consumismo (e la riduzione dei consumi), etc. sono diventati parte della “discussione globale”, e questo fa ben sperare.
Il secondo: l’importanza dell’educazione in generale, nella scuola ma soprattutto (secondo me) a casa. Ma soprattutto, l’idea che il consumismo arrivi a essere considerato un disvalore, qualcosa di negativo, tanto quanto il razzismo e la mancanza di rispetto per l’ambiente.
Mi fermo qui perché l’inattività uterina a quanto pare mi rende un soggetto non adeguato a discutere di educazione dell’infanzia ma… ci siamo capiti.
Cosa ne pensate? Avete riscontrato anche voi che certi argomenti tendono a saltar fuori più spesso nelle normali conversazioni, oppure no? Ritenete che la scuola debba promuovere certi valori (e di conseguenza presentarne altri negativi) o che debba avere un atteggiamento più neutro, lasciando alle famiglie l’orientamento in questo senso? In altre parole: ritenete che il consumismo sia sempre un non-valore e che quindi sia giusto educare ad abbandonarlo?
Food for thought… buon fine settimana a tutti.
L'articolo La crisi del consumismo (americano) sembra essere il primo su minimo..